Dai pensieri letti e in particolare dall’ultimo deriva che in Leopardi in questo periodo non c’era solo l’intima tensione a un’opera filosofica e poetica insieme, ma anche la consapevolezza di questa possibile fusione tra poesia e filosofia, tra fondo e disposizione filosofica e problematica e coerenti qualità artistiche e poetiche. E tutto ciò prova l’infondatezza della considerazione delle Operette morali sia come pura e semplice alta elaborazione artistica di un materiale filosofico pretestuale e non necessario, già tutto elaborato nello Zibaldone, sia come pura filosofia o tensione concettuale e intellettuale, cui l’arte aggiungerebbe degli ornamenti non intrinsecamente necessari. A questo proposito può essere interessante ricordare anche quello che il Leopardi ha avuto occasione di dire a posteriori sulle Operette morali, da lui sempre comunque considerate come momento fondamentale della sua esperienza e, come dice in una lettera, «il frutto di tutta la [sua] vita»[1] fino a quel punto[2].
C’è una dichiarazione tanto piú tarda, che può trarre in inganno se presa troppo alla lettera, nel Dialogo di Tristano e di un amico, che dunque risale al 1832. A un certo momento del dialogo, quando l’amico gli domanda, perplesso di fronte all’atteggiamento, da una parte di palinodia apparente e dall’altra di apologia del suo pensiero: «che s’ha egli a fare di questo libro?» (cioè le Operette morali), Tristano (cioè Leopardi), dirà: «Bruciarlo è il meglio. Non lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità dell’autore: perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e tale mi credo; e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario»[3].
Qualche volta si è assunto questo giudizio come esplicativo della natura e della stessa intenzione del Leopardi nello scrivere le Operette morali; esse sarebbero appunto un libro di «sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici». In realtà, il giudizio è tutto funzionale al discorso che il Leopardi svolge in quella operetta col quale gli preme soprattutto di rispondere, scartando provvisoriamente ogni giustificazione: pensate pure come volete, siate felici come vi pare, la mia esperienza, quello che piú m’importa, mi dice che sono infelice.
Ma questa pur suggestiva definizione delle Operette morali (che indubbiamente sottolinea quel tanto di “sogno poetico”, e a volte anche di “capriccio malinconico”, che è presente in alcune operette le quali hanno anche, si noti, toni, impostazione e taglio tra di loro non tutti meccanicamente coerenti, né sono riportabili in maniera assoluta a una totale unità) risulterebbe parziale se venisse applicata senz’altro alle Operette nella loro profonda radice di volontà, di verità e di diagnosi filosofica e potrebbe contribuire a sviare l’attenzione del lettore dall’intenzione leopardiana di esprimere poeticamente nelle Operette posizioni di valore filosofico.
Lo possono dimostrare le dichiarazioni contenute in alcune lettere del Leopardi, scritte nel periodo in cui egli si preoccupò di pubblicare le Operette morali in forma di libro.
Esse vennero inizialmente pubblicate nel ’26, in maniera frammentaria nell’Antologia del Vieusseux, a Firenze, prima, e nel Nuovo Ricoglitore dello Stella a Milano poi (il Dialogo di Timandro e di Eleandro, il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare e il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez), per provare non tanto le reazioni del pubblico in sede artistica, ma soprattutto le reazioni della censura, cercando di far passare anzitutto tre dialoghi non tra i piú vistosamente pericolosi. Successivamente, il Leopardi si preoccupò della pubblicazione intera del libro, che ebbe luogo nel 1827 presso l’editore Stella di Milano. Poi, nel ’34, ci fu una seconda edizione presso l’editore Piatti di Firenze e finalmente, nel ’35, Leopardi cercò di far pubblicare tutte le operette (comprese le ultime) dallo Starita di Napoli, lo stesso editore che in quel periodo pubblicava i Canti; ma incontrò allora lo scoglio della censura ecclesiastica napoletana, per cui il primo tomo già uscito venne ritirato dal commercio.
Dalle lettere che si riferiscono a queste edizioni delle Operette, risultano alcune interessanti dichiarazioni che possono dimostrare, da una parte, la consapevolezza leopardiana che le Operette non erano soltanto un libro di sogni e di capricci, ma avevano per lui un valore di verità assai importante, e che esse rappresentavano un impegno e una vocazione anche filosofica. E, dall’altra, provano quanto egli stesso fosse consapevole dell’aggressività del suo pensiero e come desse alle Operette e soprattutto al gruppo delle prime venti (cioè quelle del 1824, concepite e scritte in un arco di tempo piuttosto breve), un valore di libro organico e non di raccolta di singoli componimenti, un valore di unità; anche se non si tratta affatto di un’unità cosí facile e cosí meccanica come è potuto sembrare ad alcuni critici.
Nella lettera del 31 maggio 1826 allo Stella, il Leopardi insiste anzitutto sull’organicità delle Operette; all’editore infatti, che le voleva inizialmente pubblicare non come libro ma sparse entro la sua rivista Nuovo Ricoglitore, egli rispose che voleva fossero un libro: «O potrò pubblicarle altrove [interamente], o preferisco il tenerle sempre inedite al dispiacer di vedere un’opera che mi costa fatiche infinite, pubblicata a brani in un Giornale, come le opere di un momento e fatte per durare altrettanto»[4].
In un’altra lettera, indirizzata sempre allo Stella, del 6 dicembre 1826, poiché lo Stella, per ragioni editoriali e anche (benché fosse uomo coraggioso) per sviare le attenzioni della censura e di un certo pubblico che avrebbe potuto opporsi alle posizioni sostenute nell’opera leopardiana, proponeva di pubblicarle in una collezione di letteratura amena, il Leopardi risponde protestando:
[...] un libro di argomento profondo e tutto filosofico e metafisico, trovandosi in una Biblioteca per Dame, non può che scadere infinitamente nell’opinione, la quale giudica sempre dai titoli piú che dalla sostanza. La leggerezza di una tal collezione è un pregio nel suo genere, ma non quando sia applicata al mio libro. Finalmente l’uscir fuori a pezzi di 108 pagine l’uno [erano tometti misurati tutti sullo stesso numero di pagine], nuocerà sommamente ad un’opera che vorrebb’esser giudicata dall’insieme, e dal complesso sistematico, come accade di ogni cosa filosofica, benché scritta con leggerezza apparente.[5]
Sono dichiarazioni tutte assai importanti non solo per l’affermazione dell’organicità e della sistematicità del libro cui Leopardi tanto teneva, ma anche perché attestano la coscienza della serietà profonda che egli riconosceva alla sua opera filosofica, “metafisica” nel senso che toccava problemi fondamentali, supremi, «benché scritta con leggerezza apparente».
All’altezza dell’ultimo tentativo fatto per pubblicare presso lo Starita tutte le Operette (quindi anche le piú pericolose, come poteva essere il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco che chiariva in maniera assoluta l’intera prospettiva materialistica leopardiana), in una lettera del 22 dicembre 1836 al De Sinner, suo amico e corrispondente svizzero, il Leopardi annuncia: «L’edizione delle mie Opere è sospesa, e piú probabilmente abolita, dal secondo volume in qua, il quale ancora non si è potuto vendere a Napoli pubblicamente, non avendo ottenuto il publicetur. La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui ed in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto»[6].
A parte l’accenno della posizione leopardiana contro i «preti» (non solo i preti di una religione ma quelli di tutte le religioni), è importante il fatto che qui Leopardi veda chiaramente come il suo libro avesse delle profonde implicazioni di carattere filosofico, pericolose, aggressive, tali da dispiacere a ogni posizione tradizionale e confessionale. Tutto ciò apre, alla luce delle intenzioni leopardiane, un discorso sulle Operette morali che deve presupporre, contro certe valutazioni che su di esse si sono date come opera soltanto artistica o viceversa soltanto filosofica, i pensieri del ’23 sull’unione di filosofia e poesia. Le Operette non possono essere giudicate prescindendo dal fatto che la stessa forza della prosa poetica leopardiana deriva dalla profondità delle posizioni che Leopardi vi esprime e che gli stessi caratteri dello stile sono tutt’altro che indifferenti al movimento interno, problematico che è alla base di ciascuna operetta: i due fatti sono assolutamente inscindibili, inseparabili.
Bisogna ricordare anche che le Operette, frutto del periodo del ’24 e quindi legate ai presupposti dello Zibaldone del ’23, sono d’altra parte precedute da lontane intenzioni leopardiane fin dal 1819, periodo in cui Leopardi scriveva magari l’Infinito o Alla luna. Fra i Disegni letterari del ’19-20 si trova infatti anche quello di scrivere «Dialoghi Satirici alla maniera di Luciano, ma tolti i personaggi e il ridicolo dai costumi presenti o moderni, e non tanto tra morti, giacché di Dialoghi de’ morti c’è molta abbondanza» (evidentemente qui Leopardi pensa a certe riprese lucianesche del Settecento, per esempio i Dialogues des morts del Fontenelle o i Göttergespräche – Dialoghi fra gli dei – del Wieland) «quanto tra personaggi che si fingano vivi, ed anche volendo, fra animali [...] insomma piccole commedie, o Scene di Commedie»[7].
Risale quindi al ’19 una prima intenzione di scrivere dialoghi: non a caso l’aggancio lucianesco si avvertirà di piú soprattutto in alcune delle prime Operette, venendo poi a dissolversi di fronte a prospettive piú complesse e piú profonde che supereranno la misura formale dei dialoghi satirici di Luciano.
Al di là di questi proponimenti del ’19 sarà da ricordare una lettera del 4 settembre 1820 del Leopardi al Giordani in cui c’è un interessante accenno autobiografico in riferimento ai primi abbozzi delle future Operette: «In questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e quasi anche della virtú, ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche»[8].
Proprio di questo periodo sono infatti alcune «prosette» e precisamente la Novella Senofonte e Niccolò Machiavello[9], che, non in forma di dialogo ma appunto di novella, svolge, in modo assai acuto e in un certo senso anche paradossale, il tema di Machiavelli.
Questi confessa come, scrivendo Il Principe, non abbia guardato solo alla politica, ma anche al comportamento morale dei singoli individui e come egli, che era stato uno “spasimante della virtú”, dopo aver conosciuta la realtà della vita e del mondo, abbia voluto scrivere questo trattato per insegnare a comportarsi nel “mondo”, a separarsi dalla responsabilità di quei retori che insegnano tutta una serie di virtú, spegnendo le quali l’individuo si muove in modo errato, poiché la realtà è del tutto diversa.
Quindi, spirito di verità “e quasi vendetta della virtú”, ma con la conclusione che in questa maniera il Machiavelli si mostrava, paradossalmente, non un misantropo, ma un amico degli uomini in quanto li aveva stimolati a conoscere la verità e a comportarsi di conseguenza. È una novella che ha punte assai acri, come là dove Leopardi parla della virtú che è il «patrimonio dei coglioni»: è una prosa non atteggiata in forme precisamente artistiche, ma svolta in una maniera acutamente dimostrativa e discorsiva.
Piú interessanti per le prospettive del Leopardi verso questa ricerca di dialoghi satirici possono apparire il Dialogo tra due bestie p.e. un cavallo e un toro, e il Dialogo di un cavallo e un bue[10]. Nel primo, il Leopardi tende a muovere artisticamente la sua dimostrazione attraverso le forme del dialogo, precedente delle forme dialogiche delle Operette morali, e viene svolgendo un motivo tipico che troverà accoglimento nelle Operette morali, specialmente nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo: cioè la vana presunzione degli uomini, la loro sciocca idea che il mondo sia fatto per loro, satireggiata e ridicolizzata dalle due bestie, un cavallo e un toro, che invece affermano che gli uomini sbagliavano in quanto il mondo è fatto, uno dice per i tori e l’altro per i cavalli. Come elemento piú fantastico e suggestivo comparirà l’idea della scomparsa degli uomini dalla terra: le bestie dialogano tra di loro dopo che gli uomini sono scomparsi, cercano di rievocarne la presenza, fantasticano sui loro strani costumi, le loro strane idee e per ricordarli piú facilmente li paragonano alle scimmie tuttora esistenti. Questo dialogo è ripreso poi dal poeta nella forma piú diretta del Dialogo di un cavallo e un bue.
C’è poi il Dialogo: Filosofo greco, Murco senatore romano, Popolo romano, Congiurati[11] che, dal punto di vista della capacità organizzativa, per quanto ancora gracile e acerba, è quello che appare piú celere, brioso, animato dal movimento di battute dialogiche rapidissime, e sorretto anche da un chiaro riferimento ai politici del tempo. Un filosofo greco e Murco senatore romano si trovano in mezzo alla scena tumultuosa dell’uccisione di Cesare sul Campidoglio: è una satira molto acuta, brillante, pungente di uomini vili e conformisti che, tolti al loro quieto vivere, si trovano improvvisamente a dover prendere posizioni su fatti cosí impegnativi e cosí impellenti.
Si può rileggere, entro la preistoria delle Operette morali, la parte in cui i due personaggi si trovano di fronte al Popolo, che grida:
Viva la libertà. Muoiano i tiranni.
MURCO e FILOSOFO: Viva la libertà. Muoiano i tiranni.
MURCO: Bisogna studiar la maniera di regolarsi (seguano altri discorsi).
POPOLO: Muoiano i traditori. Viva la dittatura.
MURCO e FILOSOFO: Muoiano i traditori. Viva la dittatura[12].
MURCO: Qui non istiamo bene. Casa mia sta lontana. Ritiriamoci in Campidoglio. (Entrati in Campidoglio, altri discorsi).
MURCO: Che tumulto è questo?
PARTE DEL POPOLO: Viva la libertà.
ALTRA PARTE: Viva la dittatura.
MURCO e FILOSOFO: Viva la libertà. Viva la dittatura.
FILOSOFO: Viene avanti uno che porta un cappello in cima a una picca, e dietro una processione di togati. Vengono a dirittura qua.
MURCO: Oh me tristo.
I CONGIURATI: Ci siamo. Non c’è tempo da fuggire.
FILOSOFO: Tengono ciascuno un pugnale in alto.
MURCO: Portate nessun’arma indosso?
FILOSOFO: Porto uno stilo da scrivere.
MURCO: Date date, anche questo farà. Mi caccerò tra la folla, e mi crederanno uno de’ congiurati.
FILOSOFO: A maraviglia: l’amico di Cesare.
MURCO: Strigne piú la camicia che la sottana. Tu che sei forestiero, e non hai carica né dignità, non corri nessun rischio[13].
BRUTO: Il tiranno è morto. Viva il popolo romano. Viva la libertà.
MURCO e CONGIURATI: Viva il popolo romano. Viva la libertà.
BRUTO: Sbarrate le porte.
MURCO: Sí per Dio, sbarratele bene.
POPOLO: Viva la dittatura. Muoiano i congiurati.
MURCO: Muoiano i congiurati.
BRUTO: Come? dov’è? chi di voi grida, muoiano i congiurati? Sei tu quello?
MURCO: Perdonate: è stato uno sbaglio: mi diverto a far da scrivano, e per questo sono avvezzo a ripetere quello che sento dire.
BRUTO: Ma come stai qui fra noi?
MURCO: Forse che non sono de’ vostri?
BRUTO: Non so niente. Chi si è curato d’un vigliacco tuo pari?
MURCO: Anzi io son quello che gli ho dato la prima pugnalata.
CASCA: Bugiardo: la prima gliel’ho data io.
MURCO: È vero: ho fallato: voleva dir la seconda.
CONGIURATO: La seconda gliel’ho data io.
MURCO: Dunque la terza.
ALTRO CONGIURATO: Signor no: sono io che gli ho dato la terza.
MURCO: Insomma io gli ho dato una pugnalata, ma non mi ricordo quale.
CONGIURATO: E il coltello è rimasto nella piaga?
MURCO: No, ma l’ho ferito con quest’arma che porto in mano.
CONGIURATO: Questa? è imbrattata di cera ma non di sangue.
MURCO: Non gli avrò passata la veste.
BRUTO: Abbiate l’occhio a costui. Disponiamo i gladiatori.
Il Dialogo Galantuomo e Mondo[14] riporta al tema della virtú: il Mondo insegna al Galantuomo il suo errore: la sua educazione, tutta sbagliata, alla virtú lo porterà solo a errori e calamità nella vita, sicché alla fine il Galantuomo entrerà rapidamente a servizio del Mondo, proclamandosi, con la parola che chiude il dialoghetto, «Aretofilo Metanoeto», cioè «Virtuoso Penitente».
Al di là di questi documenti, Leopardi ancora una volta parlerà delle sue intenzioni satiriche in un pensiero dello Zibaldone del 27 luglio ’21:
A volere che il ridicolo primieramente giovi, secondariamente piaccia vivamente, e durevolmente, cioè la sua continuazione non annoi, deve cadere sopra qualcosa di serio, e d’importante. Se il ridicolo cade sopra bagattelle, e sopra, dirò quasi, lo stesso ridicolo, oltre che nulla giova, poco diletta, e presto annoia. Quanto piú la materia del ridicolo è seria, quanto piú importa, tanto il ridicolo è piú dilettevole, anche per il contrasto ec. Ne’ miei dialoghi io cercherò di portar la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i principii fondamentali delle calamità e della miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale, e alla filosofia, l’andamento e lo spirito generale del secolo, la somma delle cose, della società, della civiltà presente, le disgrazie e le rivoluzioni e le condizioni del mondo, i vizi e le infamie non degli uomini ma dell’uomo, lo stato delle nazioni ec. E credo che le armi del ridicolo, massime in questo ridicolissimo e freddissimo tempo, e anche per la loro natural forza, potranno giovare piú di quelle della passione, dell’affetto, dell’immaginazione, dell’eloquenza; e anche piú di quelle del ragionamento, benché oggi assai forti. Cosí a scuotere la mia povera patria, e secolo, io mi troverò avere impiegato le armi dell’affetto e dell’entusiasmo e dell’eloquenza e dell’immaginazione nella lirica, e in quelle prose letterarie ch’io potrò scrivere; le armi della ragione, della logica, della filosofia ne’ Trattati filosofici ch’io dispongo; e le armi del ridicolo ne’ dialoghi e novelle Lucianee ch’io vo preparando. [1393-1394][15]
Qui Leopardi indica delle possibili, diverse direzioni al suo lavoro letterario; una, che stava per esercitare proprio nelle canzoni del ’21-22, si appoggia alle armi della lirica, della passione; le altre, alle armi del ragionamento, in forme di trattato piú strettamente filosofico, e a quelle del ridicolo, nelle novelle e nei dialoghi lucianeschi che va preparando. L’indicazione piú importante di questi pensieri, guardando proprio alle Operette morali del ’24, è che evidentemente il poeta ha scartato in questo periodo la via dell’entusiasmo, della lirica eloquente come l’avrebbe esercitata nelle canzoni del ’21-22[16].
Per quello che riguarda le due vie (il ragionamento: i trattati filosofici; le armi del ridicolo: le prosette e le novelle), il Leopardi, attraverso i pensieri dello Zibaldone del ’23 e soprattutto quelli sull’affinità di filosofia e poesia, viene operando, rispetto a questa prospettiva ancora incerta del ’21, uno sforzo di maggiore fusione e concentrazione. Cosí, le Operette non nasceranno solo sulla via del ridicolo separato dal ragionamento filosofico, allo stesso modo che, abbandonando la via della lirica e soprattutto della lirica eloquente, Leopardi non mancherà di riportare anche dentro le Operette morali immaginazione e affetto.
Il trattato filosofico piú nudo (e se non filosofico diremo piú semplicemente ragionativo) non fu d’altra parte del tutto escluso, se si pensa che in quello stesso anno, 1824, il Leopardi, accanto alle Operette morali, scrisse anche un Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani[17], importante anche per mostrare come egli, nel periodo in cui è soprattutto preso da forme letterarie filosofico-artistiche e da alcuni gravissimi problemi sulla vita e sull’esistenza, non manca di attenzione alle condizioni del presente. Infatti, se nelle Operette morali non vi sono precisi riferimenti all’Italia, in questo Discorso il riferimento al presente, alla condizione della società (e piú precisamente della società italiana), è preminente e fondamentale.
L’attenzione alle condizioni del suo tempo si raccorda allo scambio epistolare breve ma intenso con Giampietro Vieusseux, che in quel periodo a Firenze affrontava l’impresa, cosí importante, dell’«Antologia». Il Leopardi, che ne aveva avuto notizia dal Giordani, cosí scriveva al Vieusseux in data 5 gennaio 1824:
Io so bene che l’Italia ha grandissime necessità d’esser sovvenuta e beneficata, com’Ella ha preso a fare; non so già dire se ne sia degna; ma posto ancora che niuna sua virtú presente lo meritasse, potrebbe pur meritarlo la memoria delle sue virtú antiche; e oggi la sua medesima indegnità, la quale è senza sua colpa, dee muovere gli animi buoni a compatirla e soccorrerla per pietà, se non per merito.[18]
Alla risposta del Vieusseux il quale, tra l’altro, cercava d’impegnarlo a una collaborazione, il Leopardi risponderà a sua volta con una lettera del 2 febbraio 1824, assai significativa non solo per l’apertura e il contatto con uno dei piú attivi promotori di rinnovamento nella cultura italiana in quel momento, ma pure in rapporto a questa sua costante attenzione al presente e alla stessa condizione italiana, anche quando egli era piú impegnato in problemi riguardanti l’uomo in generale e il suo pessimismo si veniva facendo sempre piú radicale e universale. Leopardi scrive:
Fra le massime eccellenti significate nella sua Lettera proemiale [all’«Antologia»], alcune delle quali meriterebbero di essere scolpite in marmo, trovo quella, che un Giornale deve promuovere principalmente il progresso e la propagazione delle scienze morali. Ora queste scienze e tutte quelle che oggi si comprendono sotto il nome di filosofia, parte principale del presente sapere in tutto il resto d’Europa, e particolarmente propria del nostro secolo, sono appunto, com’Ella sa, lo studio meno coltivato in Italia, anzi vi sarebbero affatto ignote, se non fosse per mezzo de’ libri stranieri e delle traduzioni. Di modo che volendo dar conto delle produzioni recenti degl’Italiani, non si avrebbe mai campo di parlare né di morale né di filosofia.[19]
Qui il poeta prende posizione su una situazione non solo culturale, ma generale dell’Italia, mostrando appunto (in una prospettiva europea e in relazione anche ai suoi piú forti interessi di questo periodo) che l’Italia mancava di scritti di scienze morali e filosofiche. Perciò, alla proposta del Vieusseux di diventare il relatore, l’informatore, nell’«Antologia», di quello che avveniva nello Stato Pontificio, Leopardi risponde che, a parte la nullità della cultura di questa provincia (si ricordino le lettere del periodo romano)[20], manca nella situazione italiana quel tipo di cultura scientifica e filosofica, e che dunque sarebbe piú utile «che un Giornale italiano si distendesse molto nel dar notizia e ragguaglio delle opere importanti che vengono uscendo fra gli stranieri, ma facendolo con articoli originali, e adattati ai bisogni d’Italia, sí per la scelta delle opere, e sí per le occasioni che se ne potrebbero trarre di ragionare sopra quello che ci conviene»[21].
È uno spiraglio importante per indicare la presenza di un’attenzione alla cultura e alla società italiana che si esercita all’interno di questo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, in una diagnosi non priva di certe punte paradossali (è evidente che Leopardi parla sulla base di un’esperienza che ha pure dei limiti, specie quando tocca i costumi degli italiani e la loro mancanza di società e di conversazione: si pensi infatti, per esempio, allo Stendhal che vorrà chiamarsi Arrigo Beyle «milanese», trovando proprio in Milano tante delle cose che per Leopardi erano assenti in Italia). Ma l’interesse di questo intervento nella vita del suo tempo non sta nel suo essere pienamente attendibile, quanto nel mostrare che, anche nel periodo in cui elabora le Operette morali, il Leopardi non è staccato dalla vita contemporanea, né tanto meno vive in uno stato di atonia e di assoluto distacco dalla situazione presente (a parte i profondi attacchi alle credenze persistenti o risorgenti nell’epoca della Restaurazione).
Il Discorso corre su punti tutti interessanti; anzitutto il rifiuto degli elogi che l’Italia in questi ultimi tempi aveva avuto da scrittori stranieri (si parla infatti della Corinne di Madame de Staël e di altri scritti, tutti favorevoli all’Italia, ispirati a «una opinione vantaggiosa di noi, la quale ardisco dire che supera di non poco il nostro merito, ed è in molte cose contraria alla verità»)[22]. A questi elogi motivati da varie ragioni, il Leopardi vuole opporre una diagnosi a parer suo piú esatta sulle vere condizioni degli italiani e dell’Italia.
Egli vede la condizione di minorità dell’Italia di fronte ad altre nazioni europee come soprattutto dovuta al fatto che in Italia, nella generale corruzione della civiltà (motivo che Leopardi persegue pur con forti contrasti e contraddizioni), mancano poi certi surrogati dei costumi, presenti in altre nazioni come la Francia, l’Inghilterra, la Germania, basati sulle forti illusioni vissute dall’antichità. In Italia mancano alcuni principi di costumi, di morale che permettono una vita nazionale: manca la società stessa che porta gli uomini perlomeno a tendere all’onore e all’amor proprio, il che costituisce un vincolo, uno stimolo e in qualche modo un fondamento di pubblica moralità e vitalità. Oltre a ciò, l’Italia è priva dello stimolo potente della pubblica opinione, che funziona da controllo contro i vizi e gli errori nelle altre nazioni, in cui gli individui sono spinti da essa ad acquistare onore. Tutti questi sono per Leopardi surrogati di altri motivi piú potenti che agirono nell’antichità; ma tuttavia surrogati importanti al punto che a un certo momento questa società, questa civiltà, che egli vedeva ancora in parte legata alla corruzione della ragione, gli appare però cosí attiva e sollecitata di vita nazionale, che egli dirà: «non può farsi cosa piú utile ai costumi oramai che il promuoverla [la civiltà] e diffonderla piú che si possa, come rimedio di se medesima da una parte, e dall’altra di ciò che avanza della corruzione estrema e barbarie de’ bassi tempi, o che a questa appartiene, e corrisponde al di lei spirito, e all’impulso impresso e ai vestigi lasciati da lei nelle nazioni civili»[23].
Sentendo che ciò che in questo momento può salvare un residuo o una ripresa di vita civile in Italia, è confortare e diffondere la civiltà, egli se ne fa a un certo punto fautore e promotore, quasi in contrasto con le posizioni da cui era partito.
Sono interessanti anche le recise prese di posizione del Leopardi contro i «bassi tempi»: egli, in contrasto diretto con i romantici, non vagheggia affatto il medioevo, per lui illuministicamente età di barbarie e quindi incapace di stimolare immaginazioni e credenze tali da sorreggere la vitalità.
Questo antimedievalismo leopardiano è anche legato ai passi dello Zibaldone sulla filosofia moderna, intesa come arma potente di distruzione di errori e superstizioni. Tale motivo ritorna anche in questo Discorso:
Il grandissimo e incontrastabile beneficio della rinata civiltà e del risorgimento de’ lumi[24] si è di averci liberato da quello stato egualmente lontano dalla coltura e dalla natura proprio de’ tempi bassi, cioè di tempi corrottissimi; da quello stato che non era né civile né naturale, cioè propriamente e semplicemente barbaro, da quella ignoranza molto peggiore e piú dannosa di quella de’ fanciulli e degli uomini primitivi, dalla superstizione, dalla viltà e codardia crudele e sanguinaria, dall’inerzia e timidità ambiziosa, intrigante e oppressiva, dalla tirannide all’orientale, inquieta e micidiale, dall’abuso eccessivo del duello, dalla feudalità dal Baronaggio e dal vassallaggio, dal celibato volontario o forzoso, ecclesiastico o secolare, dalla mancanza d’ogn’industria e deperimento e languore dell’agricoltura, dalla spopolazione, povertà, fame, peste che seguivano ad ogni tratto da tali cagioni, dagli odii ereditarii e di famiglia, dalle guerre continue e mortali e devastazioni e incendi di città e di campagna tra Re e Baroni, Re e sudditi, Baroni e Baroni, Baroni e vassalli, città e città, fazioni e fazioni, e suddivisioni di partiti, famiglie e famiglie, dallo spirito non d’eroismo ma di cavalleria e d’assassineria, dalla ferocia non mai usata per la patria né per la nazione, dalla total mancanza di nome e di amor nazionale patrio, e di nazioni, dai disordini orribili nel governo, anzi dal niun governo, niuna legge, niuna forma costante di repubblica e amministrazione, incertezza della giustizia, de’ diritti, delle leggi, degl’instituti e regolamenti, tutto in potestà e a discrezione e piacere della forza, e questa per lo piú posseduta e usata senza coraggio, e il coraggio non mai per la patria e i pericoli non mai incontrati per lei, né per gloria, ma per danari, per vendetta, per odio, per basse ambizioni e passioni, o per superstizioni e pregiudizi, i vizi non coperti d’alcun colore, le colpe non curanti di giustificazione alcuna, i costumi sfacciatamente infami anche ne’ piú grandi e in quelli eziandio che facean professione di vita e carattere piú santo, guerre di religione, intolleranza religiosa, inquisizione, veleni, supplizi orribili verso i rei veri o pretesi, o i nemici, niun diritto delle genti, tortura, prove del fuoco, e cose tali. Da questo stato ci ha liberati la civiltà moderna […].[25]
In simili passi, pur inseriti in un contesto assai complicato e non privo di contraddizioni, la presa di posizione cosí decisa, e cosí tumultuosa nell’incalzare continuo di condanne, è chiaramente lontana dai vagheggiamenti di una parte del romanticismo per il medioevo feudale, imperiale, cavalleresco o cortese: anzi qui i miti dell’Europa feudale e cortese, che tanto successo avevano nel romanticismo, vengono tutti capovolti dal Leopardi, tanto che egli identifica «cavalleria» e «assassineria». Da tutto questo «ci ha liberati la civiltà moderna». Un motivo importante, quest’ultimo, che il Leopardi porterà avanti sempre piú decisamente e chiaramente, specie nell’ultimo periodo della sua vita.
In questo scritto, la diagnosi della situazione italiana è dunque dura e negativa: gli italiani hanno perso i pregi della «natura», ma non hanno acquistato minimamente i pregi della «civiltà», per cui essi non hanno «costumi» ma semplicemente «abitudini» e vivono una vita gretta, dominata dal «cinismo», dall’«egoismo», dalla «misantropia». Alla diagnosi negativa della particolare situazione italiana contemporanea corrisponde nelle Operette morali una tanto piú vasta, profonda diagnosi negativa della situazione dell’uomo in generale.
1 Tutte le opere, I, p. 1244.
2 Delle Operette morali si hanno le seguenti edizioni critiche: a cura di F. Moroncini, 2 voll., Bologna, Licinio Cappelli, 1928; a cura di O. Besomi, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1979.
3 Tutte le opere, I, p. 184.
4 Tutte le opere, I, pp. 1254-1255.
5 Tutte le opere, I, p. 1274.
6 Tutte le opere, I, p. 1415.
7 Tutte le opere, I, p. 368.
8 Tutte le opere, I, p. 1109.
9 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 189-192.
10 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 194-196.
11 Il dialogo si può attribuire all’agosto del ’20. Cfr. Tutte le opere, I, pp. 102-104.
12 Il Leopardi qui, in un momento in cui sente il fascino delle individualità eroiche, satireggia la mutevolezza delle moltitudini.
13 Si noti tra l’altro l’inserimento di questa battuta popolareggiante, che evidentemente corrispondeva all’intenzione leopardiana di portare in questi suoi dialoghetti forme dell’uso comune o recuperate attraverso le sue letture di prosa cinquecentesca fiorentina.
14 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 199-205.
15 Tutte le opere, II, p. 402.
16 Del resto già abbandonata fin dalla canzone Alla sua donna: dove appunto mancano gli aspetti propri della lirica di carattere eloquente.
17 Cfr. Tutte le opere, I, pp. 966-983. Edizioni autonome del Discorso sono state pubblicate a cura di N. Bellucci, Roma, Delotti, 1988; a cura di A. Placanica, Venezia, Marsilio, 1989; a cura di M. Moncagatta, con introduzione di S. Veca, Milano, Feltrinelli, 1991.
18 Tutte le opere, I, p. 1177.
19 Tutte le opere, I, p. 1179.
20 Cfr. W. Binni, La protesta di Leopardi cit., pp. 78-84.
21 Tutte le opere, I, pp. 1179-1180.
22 Tutte le opere, I, p. 967.
23 Tutte le opere, I, p. 981.
24 Si noti come, pur partendo da una filosofia che Leopardi identifica nei suoi inizi come quella rinascimentale e soprattutto con Galileo da una parte e Cartesio dall’altra, egli la interpreti in chiave illuministica: i «lumi».
25 Tutte le opere, I, pp. 978-979.